La difficoltà nel considerare definitivo il dissidio con l’alterità forse risiede nel fatto che l’unico modo di porsi nei confronti della vita è dall’esterno, da osservatori. Solo così, negli altri, è viva e vitale. L’interiorità è stancante, e alla lunga noiosa… Visto dall’esterno, un labirinto può risultare (esteticamente) piacevole, dall’interno, solo pareti, e varchi che danno su altre pareti.
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Pretendiamo che gli altri vedano attraverso il nostro labirinto, come se avesse pareti di vetro. Ma probabilmente così non è. E ci stupiamo se gli altri chiudono il loro a doppia mandata. È così. Non stupiamoci se poi ci illudiamo di vederli attraverso vetri che in realtà non esistono.
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Ognuno percorre il proprio labirinto (o ci sta dentro, abitandoci, semplicemente, stando fermo). Ci illudiamo di fare pezzi di strada insieme: gli schemi in realtà non coincidono.
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Quello che per noi è interno, per gli altri è esterno. E viceversa. Ci stupiamo ancora?
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Alcuni labirinti realizzati nei giardini, come quelli di alcune litografie di fine 800, hanno un padiglione rialzato al centro, per permetterne l’osservazione in tutta la loro bellezza. Ma per far questo bisogna averne attraversata una metà. E poi, si deve uscirne?
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Il padiglione al centro di un labirinto, visto dall’esterno, è la cosa più notevole e di solito architettonicamente più curata. Dall’interno è solo strumentale a una bellezza esteriore e artefatta.
Il bene è sempre altrove.
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Il gomitolo è durato poche decine di metri. All’aperto, guardando l’infinita notte delle stelle nell’universo, Teseo siede per terra, la testa fra le mani.
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Il labirinto: l’utopia possibile.