Frammento, margine, ricomposizione

Prima o poi, si arriva a un punto in cui non solo ci si rende conto dei pericoli delle parole, ma ci si trova proprio in vista dei loro crepacci, del loro slittamento, della loro mancanza di aderenza al pensiero e a quello che c’è dietro. Appare, nitida, la difficoltà di costruire e mantenere in piedi con le parole una struttura di relazione. Fondami, precipitati di senso si sedimentano in fondo, residuali, consentendo l’ordinaria amministrazione del linguaggio sociale; tuttavia, anche con un minimo di applicazione, si capisce che una vera pratica del silenzio, la sola soluzione possibile, è difficile, quasi impossibile senza accettarne fino in fondo le estreme conseguenze, ultima la solitudine, al tempo stesso destino finale e origine del mondo, sfondo su cui mettiamo in scena povere pantomime.

Ma come dare valore al silenzio degli altri? E che valore? E come non riconoscere, ancora, dopo tutto, dopo tutto questo tempo, la parola di troppo? Come è possibile non riuscire ancora a confinarla in un flusso di coscienza qualsiasi, interno e sigillato? L’aporia della struttura di relazione operata dalla parola è attenuata dall’intenzionalità, chiave  che regge l’arco, umana ma forse anche ontologica, dall’attenzione, dalla cura (anche affettuosa). Silenzio.  Eliminare, sopprimere ogni retorica, se proprio il dialogo non può essere muto. A dialogare dovrebbero essere i gesti, i corpi. Gli animali come alternativa all’uomo: una forma di comunicazione che fa a meno della parola, una «solitudine pura e una pace profonda» (Murakami, 1Q84, Torino, Einaudi, 2011-12). Solitudine e silenzio si stagliano, unico orizzonte di senso, come quando, dopo aver attraversato una pianura, si inizia a scorgere una catena di montagne, le cime candide, in una giornata di sole, e poche gloriose nuvole.

Tutto questo è molto poco praticabile, e vivere in società richiede un doppio standard, come non bastassero le complicazioni. Decifrare, decodificare, capire oltre, e il surplus leopardiano di sofferenza che ogni conoscenza spinta agli estremi comporta. In un mondo senza senso, ci sono cose con gradi diversi di realtà. E tutto, per noi, ha smesso di essere soltanto reale. Non si è mai parlato così tanto. Scritto. Superinflazione delle parole. A volte il silenzio si apre. Radura. E se ne vede l’origine. Interiore. Il più delle volte non è uno stupore, ma uno sguardo lievemente attonito a dircelo, senza obiettivo, senza ormai messa a fuoco e privo di ogni profondità di campo, muto, verso l’esterno, senza limiti, in cui l’interiorità, vuota, tende a invertire la corrente, come quei fiumi che d’estate per poca portata lasciano indietreggiare l’acqua del mare.

Ci si aspetterebbero grandi rivelazioni, intuizioni, invece niente.Il niente trasale come un fondo,  estremamente dilatato, in cui gravitano le cose. E si percepisce il contrasto tra lo scollamento delle cose su questo pianeta e il grande, incommensurato vuoto che è lo spazio tra le cose conosciute.

Ci sembra di riempirlo, con le nostre soggettività e i loro sussulti, e proprio nel momento in cui ci illudiamo di avere un nostro posto, uno spazio nel mondo, invece è come se fosse lo spazio a  entrare, a volte, in noi, a riprendersi il suo, di posto. Il più delle volte. A corto di parole e a corto di silenzi. Ai ferri corti con la poesia, perché troppo intima (interiore), troppo trasparente. Ogni tanto, voglia di scrivere per il puro desiderio di essere incomprensibile, al massimo grado. Ma non si può fondare una poetica sulla cattiveria.

I poeti sanno come far fronte alla carenza di parole e di silenzio. Sanno trovare un punto – non necessariamente di equilibrio, ma di stasi – tra gli estremi. Solo quelli di valore riescono a tenere gli estremi in quel punto. Singolarità in cui infinito e finitesimo si toccano come una cosa sola. È necessaria, per questo, una perizia estrema, un estremo senso della misura, la capacità di tenere la smisuratezza delle cose che si maneggiano nello spazio della pagina. E fa una certa impressione notare tutto questo in un lavoro d’esordio di una poetessa molto giovane. Sul banco dei pesci (2022), di Carlotta Cicci, colpisce per maturità e cifra. Da sempre incoraggiamo poetiche della misura e del frammento, e se questa posizione è pacifica dal punto di vista di chi ha trasferito questa poetica nella prosa (accettandone, va da sé, il declassamento a stile), il lavoro della Cicci colpisce perché restituisce una praticabilità inattesa alla scrittura poetica perché capace di andare oltre il frammento. Non è solo questione di misura, di asciuttezza e di adesione alla forma breve, di per sé qualità notevoli, ma anche di potenza e rigore costruttivo:

Il fuoco pulisce la mia scomparsa / perdo il mistero dell’opera / che riflette le crepe // sono l’altro sguardo / delle cose // perversa e delicata / mi compio / nei dettagli sterminati / interrogo l’ordine […]

e evocativo:

non ti seguo / sono distratta / non traduco la lingua / la postura

con una scrittura a tratti carnale:

Vorrei cadere / nel nero dei tuoi occhi / in uno spazio tenue // battezzi la bocca / con la mia umidità / la mia schiena / chiede pietà

lo strappo mi respira contro / lo sterno si ribella // […] // con le mani congedo /  qualsiasi direzione / qualsiasi dio /come briciole di pane / dalla tavola

In Le tre del mattino Gianrico Carofiglio fa dire a un personaggio femminile che «tutti, siamo entità frammentate: una sequenza di emozioni, inclinazioni, tratti, desideri che ci tirano in direzioni diverse, in modo contraddittorio», e che «bisogna dilapidare la gioia, quando ci sorprende, perché è l’unico modo per non sprecarla». Si potrebbe operare una forzatura dicendo che quella dilapidazione ricostituisce quella frammentazione, una volta abbandonata la pretesa del controllo e dell’unità. La scrittura di Carlotta Cicci ci offre uno sguardo sulla frammentazione dell’esistenza per via della frammentazione delle parole, tenuto insieme dalla consapevolezza del ritmo, che è sempre accennato, piuttosto un incedere, legato a una piacevole confusione della visone interiore con quella del mondo, probabilmente frutto anche della sua pratica della fotografia. Le immagini che Carlotta ci offre ci portano a un punto in cui, come dice Ercolani, «chi scrive non sei più tu, non siamo più noi. Qualcosa ci pervade tutti, ci persuade, si scrive attraverso di noi […] L’antica invenzione della maschera avverte, al di là del suo scopo teatrale, che l’uomo trascorre la vita volendo essere altro, non tanto per somigliare a creature diverse quanto per negare il suo stesso volto. La letteratura è un linguaggio opaco che, nella tessitura del testo si fa trasparente e si assottiglia. Il trionfo del linguaggio e il suo cancellarsi. La scrittura vive i confini Incerti di ogni parola e i confini scorrono dappertutto. Fare arte è esserne consapevoli, resuscitare, ricomporre, ripensare, risognare» (Marco Ercolani, L’età della ferita, Milano, Medusa, 2022).

Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci,  Forlimpolipoli, L’arcolaio, 2022, € 14

Meccaniche della ricomposizione

Ci sono biografie che si incrociano e biografie che si intrecciano. Vite. Ecco, la parola tanto maledetta, al punto da dimenticarne il perché, tanto da chiedersi se non si sia trattato di un errore, tragicomico e equivoco, mescolato con la carta e l’inchiostro, che conserva ancora qualcosa di dicibile.
Stefano Massari mi manda il suo Macchine del diluvio (Milano, MC Edizioni), preceduto da una telefonata in cui la stessa voce amica, la stessa forza, mi parlano di ritorni (da chissà dove – nessuno può dire, veramente, dov’è stato nelle sue assenze, dal momento che siamo, sempre, maledettamente presenti a noi stessi…), di progetti… Fa un certo effetto, nello scorrere la biografia del risvolto di terza, ritrovarsi non solo nei libri ma anche nelle imprese di un poeta e di quello sparuto manipolo di hommes de lettres che ha segnato anche la mia. Le opere. D’altra parte, la vita è fatta per essere vissuta. Trapassata, da parte a parte. E quell’ultimo passo. La morte si sconta vivendo? Anche la vita. La parola bandita, nei suoi ritorni.
Nel libro di Stefano non c’è traccia di morte, semmai di morti. Nel loro essere, e rimanere, corpi.
Siamo corpi che sentono, corpi che pensano. Anzi, è il corpo che pensa, e la prima cosa che pensa è il corpo stesso. Il corpo pensa il corpo, e su questo pensiero primordiale, necessario al pensiero stesso per conoscersi, e da lì andare oltre, si sono innestate strutture di pensiero, sovrastrutture, sovrapensieri, alcuni dei  quali hanno avuto effetti mortali e mortiferi sul corpo e sulla vita. Sovrapensieri, pensieri che sarebbe stato meglio non pensare, mai. La morte è uno di quei pensieri dell’inizio; la sua paura è invece un sovrapensiero, un pensiero che ha preso una direzione sbagliata, contraria al corpo e alla vita, quando avrebbe potuto e potrebbe essere benissimo rivolto a loro favore, come richiamo e coscienza lucidamente estrema. Invece, quando il corpo pensa contro il corpo (idealismo filosofico, pensiero religioso…), il corpo distoglie con sdegno il pensiero dal corpo e si aprono le distese della morte…
Succede quindi che il corpo dell’altro, invece di essere l’ancoraggio del proprio pensiero, invece di essere, come invece è, costitutivo di ciò che siamo, si oggettifica e diventa oggetto di consumo e distruzione. In uno stato di natura che già contempla il pensiero e l’esperienza della morte, per sovrappiù, svincolati dalla necessità, continuiamo a praticare e a causare la mortificazione dei corpi nel pensiero e la loro morte nella cruda realtà.
I corpi della morte non devono essere visti. I corpi pixelati. La morte viene  allontanata dalla vista dei bambini e dal pensiero degli adulti, lì dove potrebbe, invece, al limite, essere di somma utilità, esperienza (pallida) del limite, monito della brevità e delle vere cose che contano. La paura della morte invece no, utilissima al potere di sempre a dominare morti che camminano e che hanno rimosso l’idea della morte.
Allontanato il pensiero che lo nega, o più concretamente nelle sue pause e nei momenti in cui il pensiero si assopisce, il corpo può gioire. Felicità momentanea. Gioia nel silenzio dei corpi. Laddove l’inganno evolutivo (il corpo che guarda al di là del proprio corpo, oltre l’individuo e verso l’oltre della specie) non trova di meglio che un altro pensiero, un’illusione istantanea di eternità – altra parola innominabile.
Forse non è un caso se il nuovo libro di Massari viene letto in tempi di guerra, la guerra uscita dalla metafora idiota e spropositata e rientrata, se mai ne era uscita, nel mondo del reale. Frammentario quanto si vuole e frutto dei ritorni di cui si diceva, scrittura forte, potentissima, immaginifica, impervia, recante una nuova cifra grafica (l’abbandono dello “spazio-punto-spazio” e il ricorso a una spaziatura lunga interna al verso usata come iato che gli conferisce densità e spessore – quest’ultima mi è molto familiare), il nuovo libro di Stefano è un percorso intorno al corpo e del corpo. I primi 12 morti sono corpi insepolti, come un tempo sui cigli delle strade, indipendenti dalla loro decomposizione e scomposizione. Il corpo identico, modello, schema, nella morte assume diversità – noi vorremmo alienità, ma invece… – proprio per via delle diverse forme della morte, come se i corpi fossero materia che la morte plasma. Dodici. I primi. Sono quelli dopo i quali si è smesso di contarli (siano maledetti coloro che volgono il capo altrove da un corpo morto, maledetti quelli che smettono di contare i morti):

poi bastò tacere e aspettare   come aspetta / la terra   che non ha il pensiero di noi / così il padre del padre   si staccava avanzi marci e neri dal corpo    che neanche parlava / e pure spingeva i denti in avanti   per riuscire / almeno a ringhiare   i medici lo tagliarono tanto / che non ne rimase nemmeno il ricordo […].

Poi il diluvio. Qui non capisco se il diluvio marca un tempo lungo – la cesura di Stefano – o anche, come evocazione vorrebbe, la tabula rasa da cui ripartire. Ma le Figure del diluvio si stagliano come sculture, come se i corpi dei morti, ormai privi di tutto se non della loro morte, se non di quel ecco cosa mi hanno fatto, ora si ergono come artefatti, opere di un’arte – umana? – che torna non senza timidezza alla luce, che torna a voler dire. Le opere si aprono verso di noi, ricordano, rappresentano, ammoniscono:

pura calva e solenne / ha negli occhi   l’intenzione di essere madre / ha due bocche opposte che apre   una nell’ombra / che vomita collera   l’altra enorme   che annuncia / la peste   che presto sarà di noi.

Le Macchine del diluvio sono anch’esse sculture, ma sculture d’aria e di sogno, di una plasticità tutta ancora da inventare (e per la quale riconosco ancora, pur nella mia rinnegazione, un valore anche pratico alla poesia). Macchine per le quali è sostanziale il movimento, anche se fossero destinate a rimanere lì come sculture da giardini, a ripeterlo sotto le intemperie e nel tempo:

la rotazione delle torri   le nervature locuste / cresciute unanimi e insonni   le cuciture dei cementi / e degli allarmi   le giuste confessioni delle carni.

Le macchine stanno lì a dirci che noi siamo corpi (lo abbiamo dimenticato) mossi da quel bios. Chiamiamolo così. In mancanza di meglio. Chiamiamolo con quanto troviamo nell’ultima sezione del libro, Diario nostro, dove il bios, se ha un senso, lo ha in quanto viene scritto, forza che muove le macchine. Energia? No, quella è la fonte, sostanza è il meccanismo: ingegno più arte e, purtroppo, heideggeriamente, tecnica. Nel diario è come se (e in questo «come se» pago tributo al mio antico scetticismo) i corpi rinascano, come se l’eros, ma preferirei dire piuttosto gli atti d’amore, fungessero da innesco che permette il movimento – a questo punto è il caso di dire: funzionamento – dei corpi-macchine. Non solo (e qui il pessimismo antico pare scivolarmi tra le dita): una vera e propria ricomposizione della vita:

[…] e qui davanti alla città / riunita intera nelle mani nostre  che fanno piano / ancora   che imparano a cercarsi   sapendo / che tutto è raggiunto  che tutto comincia / adesso

impareremo questo coraggio / di obbedirci   di curarci

guarda   ti vengo dentro   e riesco a pregare / le cose vive   che non sanno obbedire o disobbedire / ora che con la schiena mi cerchi   mi spingi libera / da tutto   anche da me   e senza più paura e destino / mi stringi   tutto il bene e il male del mondo   ora / che solo in ogni tuo giorno   conosco la parola del mio.

Possiamo fidarci di qualcosa che sappiamo coesistere, consistere solo nell’istante? Di un attimo di gioia? Può essere di più? Ovviamente no. Sto passando l’ultima parte della mia vita (pardon…) a teorizzare qualcosa che vada oltre. Non qualcosa che resti: niente resta, solo cadaveri, figure, macchine e parole, e sono grato a Stefano Massari per averci dato una nuova fenomenologia della decomposizione e, come lui mi scrive, una «fede umana» (attenzione: non nell’uomo – non è la stessa cosa). O, come più banalmente direi io (ma senza aderirvi prima di capire bene), una speranza.
Le macchine non hanno niente di tutto ciò. Ma noi siamo macchine. Costruiamo macchine, e miti dell’Arca.
Ho più fiducia negli animali. Che non costruiscono arche ma saranno gli unici (o purtroppo, gli ultimi) a sopravvivere a ogni nostro diluvio. Perché sono gli unici ad avere, forse non solo nel nome, un’anima.


Stefano Massari, Macchine del diluvio, Milano, MC Edizioni, 2022, € 14

Abitare la soglia

La soglia, come dice Stefano Massari, è forse la cifra delle scritture di Marco Ercolani. Bisogna usare il plurale, ormai, con Marco, anche se insisto nel dire che Sentinella, ora alla sua nuova edizione («ampliamento»), resta la mainland in quell’arcipelago che è l’esperienza letteraria di Ercolani, visto dalla mia particolarissima inclinazione dello sguardo. Sto prendendo anch’io il vizio non solo di citare senza fonti, coi corsivi – tanto peggio per i filologi, anche se: ragazzi, tranquilli… non ne avremo… (ok, va bene, parlo solo per me). Sfumare i contorni delle vecchie scritture con le nuove, anteporre il recente al passato, Ercolani lo fa con questa nuova versione di Sentinella 2010-2022 (L’Arcolaio, 2022). Come se avessimo già trovato un finale, e non volendoci rinunciare (come rinunciare al l’illusione di essere noi, a sceglierci una fine…), inseriamo nuove pagine nel bel mezzo delle vecchie (le sezioni È questa l’aurora, e La vela e il vento).
Fin qui il mio lavoro di cartografo. Non solo i rapsodi cucivano «il dolore che scuce il presente dal passato» (p. 103): potrei testimoniare come sia possibile cucire la lacerazione di presente e passato, proprio ricongiungere, riunire i lembi. Non lo farò. Ho mantenuto la mia promessa di smettere, dopo Sentinella, i vestiti da poeta. Preferisco annotare a margine, e solo sulle nuove inserzioni, un del tutto arbitrario viottolo d’erba calpestata, sempre nel solco della mia recensione del 2012, gentilmente inserita da Gianfranco Fabbri a fine testo, tra le cose di cui mi approprio, riconoscendole, nel lavoro instancabile di Ercolani.

L’aurora. E non il tramonto.

Liberi di vederli speculari. Caro, buon vecchio Fritz. Il pensiero dell’inizio…

Aereo, terrestre, non importa. Il pensiero della distanza. Dalla distanza…

Avvicinarsi all’aurora è voler anticipare il giorno. E noi no, non lo vogliamo, no.

L’acqua – ogni cosa, la vita (la parola bandita), tradiscono. Non si sa mai  come. Né perché.

Ogni muro è una porta? Volesse il cielo.

Amicizia è condividere l‘indicibile. Ma cos’è quando si condividono i silenzi?

Già, il silenzio e la scrittura. Quella soglia. Ma il silenzio non è solo futura parola, è anche parola negata, rifiutata, ricacciata in gola, e in quei rari momenti di bellezza, puramente e semplicemente inutile, di quell’inutilità che culla e avvolge, stringe in un abbraccio l’essere e il mondo. Quando ti fai mondo ed è come se ti vedessi, lì, cosa tra le cose, ed una parola sarebbe violazione del mondo. (Cosa che poi è stata, è, antropologicamente, e non solo).

Ma Ercolani ne conviene: «Inoltrarsi nelle parole: restare muti», il bianco della carta che abbaglia, indicando il silenzio, il regno d’aria delle parole, la lingua legnosa termite di se stessa, la parola usata per tacere.

Su quella soglia, orizzonti. Sino al punto in cui «sconfinare è restare nel confine».

Ma restando, svanisce ogni confine. Ora lo so.

Ed è tanto ormai che, continuando a camminare, sempre quella voglia finale di fermarsi, restare, diciamo che alle nuvole non vanno aggiunte parole. Eppure.

Marco Ercolani, Sentinella 2010-2022, L’Arcolaio, 2022
129 pp., € 13

L’Aperto… della malinconia (di Daniela Bisagno)

Dice bene Antonio Devicienti quando, nella prefazione, parla di quest’opera come di un lavoro in cui il pensiero, nelle sue diverse declinazioni («vagante e divagante», «coagulantesi e tagliente», «melanconico e sognante, o sentenzioso e e assorto») dà vita, «non più a un libro», ma a uno spazio: «Uno spazio del pensiero e per il pensiero». Un’idea – quella di un spazio, per per il pensiero e per lo sguardo – già suggerita, oltre che dal titolo, dall’immagine di copertina: un particolare della Camera degli sposi di Andrea Mantegna, frutto – è facile supporre – di una scelta oculata, ponderata. Lo spazio è, appunto, quello della distanza, che Antonio Prete, nel Trattato sulla lontananza, ci invita a tenere aperto, muovendoci in direzione opposta rispetto alla tendenza contemporanea, alla tecnica del nostro tempo, che questa distanza vorrebbe invece ridurla ai minimi termini, colmando a tutti i costi un vuoto, in assenza del quale non solo la poesia, l’arte, ma la parola stessa, inclusa quella del dialogo, rischierebbe di soffocare. Ma l’arte della distanza è soprattutto l’arte della prospettiva, con cui fu possibile, per la prima volta nella storia della pittura, dare forma e presenza al lontano, rappresentare quello sfondo che, fino a poco tempo prima, era considerato un fatto non molto rilevante. E qui entra in gioco l’immagine di copertina, quel particolare della Camera degli sposi di Mantegna, dove – osserva ancora Antonio Prete – «sia gli scorci di apertura sul paesaggio sia le raffigurazioni del cielo sembrano inseguire un’idea: la lontananza ha a che fare col sogno, con le immagini dell’altrove» (e l’altrove è una figura in cui ci imbattiamo frequentemente in questo libro, specie nelle pagine di Massimo Barbaro).

Francesco Fracanzano, Ritratto di vecchio cinico

La lontananza ha a che col sogno: c’è un frammento incluso nella XXXVI capitolo, intitolato Una questione di distanza (p. 196), dove Marco Ercolani parla di un quadro (alle riflessioni sull’arte pittorica è dedicato un ampio spazio all’interno dell’opera, soprattutto nelle parti curate da Ercolani) conservato in una galleria di Palazzo Bianco, a Genova. Si tratta di un’opera di Francesco Fracanzano da Monopoli, Ritratto di un vecchio cinico, che rappresenta «un volto severo, diabolico» la percezione del quale varia a seconda della distanza scelta dallo spettatore per guardarlo. Infatti, quel volto che, visto da vicino, «suggerisce la maestosa allegoria del vecchio e solenne filosofo», man mano che ci scostiamo dalla tela, ci apparirà in tutta la sua abiezione – «la bocca corrotta, le guance gonfie, la fronte rugosa del vecchio vizioso». Sicché, osserva in conclusione Ercolani, è proprio una questione di distanza: «lo spettatore sceglie la moralità del ritratto accostandosi o scostandosi dalla tela di pochi cm., quasi fosse potere solo del suo occhio la capacità di scegliere il bene o il male, il sogno o il reale».

Di primo acchito, si direbbe: l’occhio che guarda da vicino si pone nell’ ottica del sogno, quello che invece si discosta, sia pure di poco, dal quadro e guarda in prospettiva, vede il reale, cioè il volto del vecchio filosofo in tutto il suo orrore. Il sospetto è che non sia così: e che la percezione dell’orrore, ottenuta interponendo una, ancorché minima, distanza, fra l’occhio e la tela, sia proprio quella del sogno. È il sogno a instaurare la distanza che ci consente di scorgere il volto nelle sue rughe, nei suoi segni, oggetto di quelle potenze devastatrici che – è facile immaginare – porteranno, fra breve, alla sua dissoluzione. È la potenza dello sguardo melanconico – lo sguardo del sogno – a permetterci di vedere le cose non per come appaiono da vicino, ora e qui, forme dotate di un’integrità, che le rende solenni, maestose, quasi immutabili, ma per come sono realmente, cioè sempre in stato di metamorfosi, sempre in balia di quel processo di dissoluzione (Auflösung), che negli acquerelli di Turner, ad esempio, è attivato dalla luce, come Ercolani stesso osserva nel frammento intitolato Troppa luce. È la luce stregante, che disgrega la Giudecca, la notte della luce in cui sprofonda la Venezia nei suoi quadri: «I contorni sono morbidi», scrive Ercolani, «ma la luce scava, erode, toglie intensità ai piloni, materia alle case, colore alle gondole». Senza considerare che questa luce pervasiva, dilagante, rovinosa e incantata, simile alla luce che ci colpisce in certi sogni (quelli preveggenti, visionari) e che non sembra neppure provenire dall’esterno, ma sprigionarsi dall’occhio stesso (malinconico) del pittore, conferisce agli acquerelli di Turner quell’aura di incompiutezza, tipica delle opere imperfette, non compiute.

William Turner, Venice: The Giudecca Canal, 1856

«Cogliere un pensiero mentre si forma, prima che diventi qualcosa da leggere o da vedere», secondo l’aspirazione di quel pittore del ‘6oo, di cui accenna Ercolani nel frammento Mai rifinire (p. 194), il quale «lavorava a un solo disegno, spaventato dalla possibilità che potesse diventare un quadro», o coglierlo nel momento in cui sta per soccombere alle forze disgregatrici e ritornare al nulla da cui proviene, come fa Turner, il risultato è lo stesso. In entrambi i casi, l’opera – non rifinita o disgregata che sia – è tale perché intrattiene un proficuo rapporto dialettico – un rapporto di mutua collaborazione, potremmo dire – con la morte. Non con quella morte paventata dal pittore seicentesco che consiste nell’esecuzione dell’opera stessa, cioè nella sua uscita dall’indefinito per fare ingresso nel regno delle forme (questa è la fine vera dell’opera d’arte, il suo tradimento, precisa Ercolani), ma con la morte intesa, quasi alchimisticamente, come “potere di mettere in moto”, azione instancabile di quelle forze fautrici di metamorfosi in virtù delle quali anche la scrittura è «oscillazione inappagata» «plasticità febbrile», tormentatrice e consolatrice, perché «c’è sempre una riga ulteriore da scrivere/segnare, con la quale chiudere (in modo imperfetto) il cerchio (destinato a slabbrarsi, come ogni vera ferita)» (pag. 196). Qualcosa che cancella le sue tracce: «Non lasciare nessun segno dietro di sé – bruciare kafkianamente l’opera al termine della propria vita – è il vero scopo dello scrittore a cui lo scrittore disobbedisce per vanità», scrive Ercolani, nel XIV capitolo ( p. 82).

Nel monito a non rifinire mai in cui avvertiamo tutto l’orrore per l’opera finita del Cechov dei Taccuini rivisitato da Ercolani nel suo libro Un uomo di cattivo tono («Perché scrivo appunti? Perché l’opera finita mi annoia», p. 12), risuona l’invito a non porre un argine al dilagare di queste forze, a lasciarle spaziare – come lo sguardo, nell’aperto – con quella libertà estrema che Massimo Barbaro, nel capitolo successivo (XXXVII), attribuisce alla scrittura aforistica. «L’aforisma è inquietante», egli scrive, «perché, al di sotto, si percepisce la perturbante, sgradita verità. Per questo i romanzieri lo odiano. I filosofi lo detestano perché non ne sopportano l’estrema libertà, sganciata dai sistemi, perché in fondo l’unica verità che tollerano è una verità igienizzata, sanificata, asettica (l’opera sottratta all’indeterminato e consegnata alla perfezione cadaverica della forma compiuta di cui parlava Ercolani), e non quella sporca e pericolosa, intrisa di vita», dove la sporcizia, la pericolosità sono l’indizio che c’è dell’altro, come quell’eccesso che il discorso dei mistici ad esempio, non cessa di produrre, generando scompiglio – perturbando. Non è un caso che gli aforisti – conclude Barbaro – con un’allusione abbastanza scoperta a Cesare Viviani – «trovano qualche comprensione forse solo nei poeti, gli unici a manipolare l’indicibile e il non detto» (p. 199). Gli unici forse davvero capaci di praticare quell’esercizio di rinuncia, che consiste nel “mollare la presa”, di cui si parla in questo capitolo del libro, nella prima riflessione intitolata appunto Mollare la presa, in cui Barbaro sembra intrattenere un dialogo a distanza con Viviani («Uomini, dateci retta, mollate/, mollate,/ mollate, mollate» è il reiterato invito rivolto dal poeta nei versi della sua penultima raccolta poetica, Osare dire), come in questa riflessione, ad esempio: «La realtà: un sistema complesso di illusioni, a leganti forti, che impediscono di vedere il vuoto tra gli interstizi, fondato sul nulla» (pp. 199-200). E ancora: «Tutto è nelle pause, nel vuoto. Nelle cose non dette, non fatte, c’è la parte migliore di noi» (p. 41).

L’occhio dei creatori, dei poeti capaci di “manipolare l’indicibile e il non detto” (Non detto, indicibile è anche il titolo di un capitolo della Voce inimitabile, una raccolta di saggi di poetica di Cesare Viviani), è un occhio malinconico, in grado di praticare l’arte della distanza. E forse non è un caso che l’interesse e lo studio scientifico della prospettiva (che è, per definizione, l’arte della distanza) risalga alla stessa epoca, il Rinascimento, in cui l’acedia o malinconia, si trasforma, anche grazie alla mediazione di Aristotele, in stato di elezione, sinonimo di genialità, di quell’ampiezza e profondità di sguardo, che, secondo il pensiero magico-ermetico rinascimentale, è prerogativa dei filosofi e dei sapienti. Di coloro che sono dotati di orecchio cosmico, capaci di percepire la voce del Cosmo, di cui parlarano e scrissero i neoplatonici Marsilio Ficino e Leone Ebreo e a cui non manca di accennare anche Massimo Barbaro, in una riflessione, intitolata significativamente Il rumore di fondo (VII capitolo), che è «la radiazione cosmica di fondo, l’eco del Big Bang, l’inzio che perdura ancora oggi» (p. 58), come lo descrive Barbaro stesso, o la «traccia sonora, surplus e reliquia dell’origine, nei rumori di oggi», come lo definisce Michel de Certeau in La scrittura dell’altro. E forse è proprio all’interno di questa costellazione poetico-sapienziale che bisognerebbe inserire i reiterati inviti di Barbaro alla rinuncia, alla pratica del distacco (Educazione all’addio, recita il titolo della prima riflessione del capitolo V, curato da Massimo Barbaro, p. 39), alla perdita, persino a quella forma estrema di perdita o rinuncia che culmina nella donazione di sé («il distacco, la capacità di rinuncia, sapere di potersi accontentare della possibilità, nel disprezzo dell’empiria, implodere lentamente in se stessi, donarsi», si legge a p. 41) in cui è facile ravvisare echi della mistica apofatica, eckartiana, a cui lo stesso Viviani è sensibilissimo.

Si potrebbero inscrivere in questa costellazione, proprio perché ciascuna di tali pratiche negative – perdita, rinuncia, abbandono, distacco – rappresenta, al contrario di quanto potrebbe apparire, una tappa nel cammino verso il conseguimento di qualcosa, che è, al contempo, dichiarato inattingibile, di cui si predica continuamente l’irraggiungibilità, sino ad ammettere che addirittura non si deve cercare, come la felicità. «La felicità è sottrattiva. (È infatti una questione di abbandono, un lasciar andar via, un fare a meno, appagamento che non solo spegne il desiderio – o per meglio dire, la volontà – ma la rende inopportuna, indesiderabile. Il guaio della felicità è la ricerca», scrive Barbaro (pp. 54-55). Abbandonare, accettare di perdere, o rinunciare alla ricerca di ciò che è da sempre l’oggetto più corteggiato dal desiderio dell’uomo (chi non ha mai desiderato essere felice?) sembra configurarsi come una strategia finalizzata, non a perdere, bensì a raggiungere l’obiettivo (la felicità). E a raggiungerlo, paradossalmente, attraverso una perdita, un atto di rinuncia – una sottrazione, dice Barbaro. Proprio a somiglianza di quanto avviene nella malinconia, in cui la conquista dell’obiettivo, l’esaudimento del «desiderio di ciò che non c’è», è raggiungibile solo nella misura in cui esso viene dichiarato perduto: solo a patto di mantenerlo fisso, nell’inaccessibile, come avviene nella vocazione contemplativa del temperamento saturnino – la felicità è sottrattiva (è questo il carattere ambivalente dell’intenzione malinconica da cui tanto rimase impressionato Freud).

Albrecht Dürer, Melencolia, I

E chissà se le lacrime, quel piangere in cui Massimo Barbaro riconosce una propria perversione (XV capitolo) non celebrino, più che una perdita, un lutto, una gioia; o un lutto e una gioia, insieme, se prestiamo fede a quanto diceva Hölderlin: che solo nel lutto la gioia si esprime. Se è così, se cioè la fuga da… è anche una fuga per…, che comunica con l’oggetto del suo desiderio (la gioia, la felicità) nella forma della negazione e della carenza, aprendo per così dire uno spazio all’epifania dell’inafferrabile, come scrive Agamben, allora forse di questo lutto, che irrora del suo umore lo sguardo di colui pratica l’arte della distanza, potremmo ripetere ciò che Giovanni Climaco affermava dell’acedia: che la maggior disgrazia non è averla, ma non averla mai avuta. Una conclusione a cui, con le dovute differenze, giunge lo stesso Ercolani nel secondo capitolo del libro, laddove scrive, citando Plotino o scrive attraverso Plotino: «Si può dire che la mente ha due poteri. Uno è la visione della mente sobria, l’altro è la mente in stato d’amore: quando, ebbra di nettare, perde la ragione, entra in uno stato d’amore, effondendosi nella gioia, ed è meglio per essa impazzire che restare lontana da tale ebbrezza» (pp. 24-25).

Peter Bruegel il vecchio, Acedia

https://ercolani.art.blog/2021/10/27/laperto-della-malinconia/