Frammento, margine, ricomposizione

Prima o poi, si arriva a un punto in cui non solo ci si rende conto dei pericoli delle parole, ma ci si trova proprio in vista dei loro crepacci, del loro slittamento, della loro mancanza di aderenza al pensiero e a quello che c’è dietro. Appare, nitida, la difficoltà di costruire e mantenere in piedi con le parole una struttura di relazione. Fondami, precipitati di senso si sedimentano in fondo, residuali, consentendo l’ordinaria amministrazione del linguaggio sociale; tuttavia, anche con un minimo di applicazione, si capisce che una vera pratica del silenzio, la sola soluzione possibile, è difficile, quasi impossibile senza accettarne fino in fondo le estreme conseguenze, ultima la solitudine, al tempo stesso destino finale e origine del mondo, sfondo su cui mettiamo in scena povere pantomime.

Ma come dare valore al silenzio degli altri? E che valore? E come non riconoscere, ancora, dopo tutto, dopo tutto questo tempo, la parola di troppo? Come è possibile non riuscire ancora a confinarla in un flusso di coscienza qualsiasi, interno e sigillato? L’aporia della struttura di relazione operata dalla parola è attenuata dall’intenzionalità, chiave  che regge l’arco, umana ma forse anche ontologica, dall’attenzione, dalla cura (anche affettuosa). Silenzio.  Eliminare, sopprimere ogni retorica, se proprio il dialogo non può essere muto. A dialogare dovrebbero essere i gesti, i corpi. Gli animali come alternativa all’uomo: una forma di comunicazione che fa a meno della parola, una «solitudine pura e una pace profonda» (Murakami, 1Q84, Torino, Einaudi, 2011-12). Solitudine e silenzio si stagliano, unico orizzonte di senso, come quando, dopo aver attraversato una pianura, si inizia a scorgere una catena di montagne, le cime candide, in una giornata di sole, e poche gloriose nuvole.

Tutto questo è molto poco praticabile, e vivere in società richiede un doppio standard, come non bastassero le complicazioni. Decifrare, decodificare, capire oltre, e il surplus leopardiano di sofferenza che ogni conoscenza spinta agli estremi comporta. In un mondo senza senso, ci sono cose con gradi diversi di realtà. E tutto, per noi, ha smesso di essere soltanto reale. Non si è mai parlato così tanto. Scritto. Superinflazione delle parole. A volte il silenzio si apre. Radura. E se ne vede l’origine. Interiore. Il più delle volte non è uno stupore, ma uno sguardo lievemente attonito a dircelo, senza obiettivo, senza ormai messa a fuoco e privo di ogni profondità di campo, muto, verso l’esterno, senza limiti, in cui l’interiorità, vuota, tende a invertire la corrente, come quei fiumi che d’estate per poca portata lasciano indietreggiare l’acqua del mare.

Ci si aspetterebbero grandi rivelazioni, intuizioni, invece niente.Il niente trasale come un fondo,  estremamente dilatato, in cui gravitano le cose. E si percepisce il contrasto tra lo scollamento delle cose su questo pianeta e il grande, incommensurato vuoto che è lo spazio tra le cose conosciute.

Ci sembra di riempirlo, con le nostre soggettività e i loro sussulti, e proprio nel momento in cui ci illudiamo di avere un nostro posto, uno spazio nel mondo, invece è come se fosse lo spazio a  entrare, a volte, in noi, a riprendersi il suo, di posto. Il più delle volte. A corto di parole e a corto di silenzi. Ai ferri corti con la poesia, perché troppo intima (interiore), troppo trasparente. Ogni tanto, voglia di scrivere per il puro desiderio di essere incomprensibile, al massimo grado. Ma non si può fondare una poetica sulla cattiveria.

I poeti sanno come far fronte alla carenza di parole e di silenzio. Sanno trovare un punto – non necessariamente di equilibrio, ma di stasi – tra gli estremi. Solo quelli di valore riescono a tenere gli estremi in quel punto. Singolarità in cui infinito e finitesimo si toccano come una cosa sola. È necessaria, per questo, una perizia estrema, un estremo senso della misura, la capacità di tenere la smisuratezza delle cose che si maneggiano nello spazio della pagina. E fa una certa impressione notare tutto questo in un lavoro d’esordio di una poetessa molto giovane. Sul banco dei pesci (2022), di Carlotta Cicci, colpisce per maturità e cifra. Da sempre incoraggiamo poetiche della misura e del frammento, e se questa posizione è pacifica dal punto di vista di chi ha trasferito questa poetica nella prosa (accettandone, va da sé, il declassamento a stile), il lavoro della Cicci colpisce perché restituisce una praticabilità inattesa alla scrittura poetica perché capace di andare oltre il frammento. Non è solo questione di misura, di asciuttezza e di adesione alla forma breve, di per sé qualità notevoli, ma anche di potenza e rigore costruttivo:

Il fuoco pulisce la mia scomparsa / perdo il mistero dell’opera / che riflette le crepe // sono l’altro sguardo / delle cose // perversa e delicata / mi compio / nei dettagli sterminati / interrogo l’ordine […]

e evocativo:

non ti seguo / sono distratta / non traduco la lingua / la postura

con una scrittura a tratti carnale:

Vorrei cadere / nel nero dei tuoi occhi / in uno spazio tenue // battezzi la bocca / con la mia umidità / la mia schiena / chiede pietà

lo strappo mi respira contro / lo sterno si ribella // […] // con le mani congedo /  qualsiasi direzione / qualsiasi dio /come briciole di pane / dalla tavola

In Le tre del mattino Gianrico Carofiglio fa dire a un personaggio femminile che «tutti, siamo entità frammentate: una sequenza di emozioni, inclinazioni, tratti, desideri che ci tirano in direzioni diverse, in modo contraddittorio», e che «bisogna dilapidare la gioia, quando ci sorprende, perché è l’unico modo per non sprecarla». Si potrebbe operare una forzatura dicendo che quella dilapidazione ricostituisce quella frammentazione, una volta abbandonata la pretesa del controllo e dell’unità. La scrittura di Carlotta Cicci ci offre uno sguardo sulla frammentazione dell’esistenza per via della frammentazione delle parole, tenuto insieme dalla consapevolezza del ritmo, che è sempre accennato, piuttosto un incedere, legato a una piacevole confusione della visone interiore con quella del mondo, probabilmente frutto anche della sua pratica della fotografia. Le immagini che Carlotta ci offre ci portano a un punto in cui, come dice Ercolani, «chi scrive non sei più tu, non siamo più noi. Qualcosa ci pervade tutti, ci persuade, si scrive attraverso di noi […] L’antica invenzione della maschera avverte, al di là del suo scopo teatrale, che l’uomo trascorre la vita volendo essere altro, non tanto per somigliare a creature diverse quanto per negare il suo stesso volto. La letteratura è un linguaggio opaco che, nella tessitura del testo si fa trasparente e si assottiglia. Il trionfo del linguaggio e il suo cancellarsi. La scrittura vive i confini Incerti di ogni parola e i confini scorrono dappertutto. Fare arte è esserne consapevoli, resuscitare, ricomporre, ripensare, risognare» (Marco Ercolani, L’età della ferita, Milano, Medusa, 2022).

Carlotta Cicci, Sul banco dei pesci,  Forlimpolipoli, L’arcolaio, 2022, € 14

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