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Variazioni di silenzi, epifanie della parola…
Un attimo di sospensione assoluta.
(Marco Ercolani)
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Una sensibilità raffinatamente riluttante…
Ordinarie rivelazioni, poesia dolorosamente attenta all’attimo.
(Manu Bazzano)
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Una suggestione pessoana delle nuvole come «finzioni» e «uniche cose reali» ci accompagna nel viaggio in questi seducenti “giardini” di Barbaro. La voce del poeta cerca una poesia come «elogio […] della possibilità / di riempire gli spazi vuoti». Un elogio che, fin dall’inizio, rifiuta la pienezza di un progetto, ma ci parla delle minime e stupefacenti ipnosi di uno smarrire il mondo attraverso il linguaggio. La voce che percorre questa poesia è una leggera rapsodia filosofica che abita luoghi ed emozioni reali. Niente di enfatico, di prescrittivo, di teorico, piuttosto una riflessione che apre la mente e il corpo. Si scrive, sì, ma come se chi scrivesse fosse un essere in mezzo alla folla, un io nell’arcipelago di tanti “io” possibili, un soffio che guida adesso la mano, la fantasia, la coscienza, il sogno.
L’andatura del libro di Barbaro appare lenta, meditativa, ma si compone di versi agili, brevi, veloci, con poesie anche in lingua francese ed inglese. Vi si respira l’atmosfera di un monologo molto naturale con la propria anima, un monologo fatto di immagini che sono simboli aerei e leggeri della disperata condizione umana, e insinuano una persistente malinconia, che non si colora di minimalismi crepuscolari, ma si esprime con una fermezza delicata, ai confini di una percezione zen dell’io e del mondo.
Barbaro descrive scene di amorosa tristezza, una «stanchezza delle immagini» fotografa in modo preciso la discrezione del poeta, sempre parco nell’utilizzare simboli, metafore, colori. Barbaro si discosta dalle tenerezze biografiche per accedere a un’altra magica “tenerezza” interna, scandita da un colloquio interiore che non cessa di esplorare la parte invisibile di sé: «se mai sapremo / dove riposa / il respiro ultimo / delle cose nascoste / al pensiero». Qui la limpidezza della meditazione si modula con una grazia intrinseca dell’ars poetica di Massimo Barbaro. Ogni poesia nasce nel desiderio di aprirsi una via alla conoscenza di sé attraverso la magia di un linguaggio minimo, che si insinua nei dettagli, negli interstizi tra gli oggetti. L’atmosfera non è sentimentale, ma ricca di tonalità affettive che evocano una malinconia leopardiana. La voce della lontananza, del’abbandono, è quella di un monaco laico, che conosce le variazioni dei silenzi e le epifanie della parola.
Nel libro affiorano anche dei brevi brani in prosa, tra cui tre pezzi definiti gouaches. Il termine non appare casuale. Si definisce come gouache una tecnica pittorica dove il colore a tempera è reso più opaco dall’aggiunta di un pigmento bianco (per esempio gesso) e una miscela con gomma arabica. Barbaro, in realtà, compone spesso dei quadri poetici che evocano gli acquerelli e le tempere per la loro intrinseca delicatezza ma che restano nella memoria come qualcosa di opaco, traccia persistente di una inadeguatezza ontologica, di un’inesistenza accorata, come se l’io non potesse neppure far echeggiare la sua voce. La leggera versificazione di Barbaro coglie spesso definizioni tragiche dell’esistenza, con risultati di chiaroscuro e di contrasto o aperture a immagini misteriose oppure considerazioni esistenziali che turbano per la loro solo apparente semplicità: «camminiamo / senza uno scopo / stretti / e pure / ritorniamo sui nostri passi».
È frequente nella poesia di Barbaro l’attenzione al “vivere l’attimo”. Ma «nell’azzurro più scuro / l’attimo è sempre / compresso schiacciato / tra il passato / e l’altrove». Non esiste un presente, ma un “passato” e un “altrove”. Oppure è solo uno scorato presente. Alla fine domina l’umiltà di un semplice movimento affettivo.
In uno dei versi “francesi” di Barbaro si legge: «dévoilement, épiphanie dans l’autrui». Affermazione non sorprendente in questa poesia così personale e così “anonima” nel dare voce a minimi sentimenti universali, «l’io sono qui ma / potrebbe essere / benissimo / altrimenti altrove».
Questa poesia, nelle immagini e nelle parole, è un attimo di sospensione assoluta. Il mondo appare come una cosa lontana, rarefatta, non dissimile da un miraggio, la sospensione degli eventi diventa atto vitale, fermezza di una conclusione. Quelle che Barbaro definisce le «impronte delle dita / sul bicchiere» sono il senso di questa vita presente e reale, ma lieve come un soffio, destinata a sfuggire. Sorprende la dolce precisione del suo linguaggio, nel dire con il linguaggio più semplice questo évanouir delle cose, queste virgiliane «lacrimae rerum». Sorprende questa attenzione ad emettere la parola come un respiro, a scavare la lingua non per prosciugarla ma per renderla simile a un liquido bisbiglio.
In modo non diverso un’immagine dal sapore claustrofilico, quasi beckettiano, è risolta dal poeta con un tono delicato, da acquerello sull’orlo dell’abisso: «io qui / con gli occhi ancora aperti / e le ante dell’armadio socchiuse ». Facile immaginare un «uomo nell’astuccio» di cecoviana memoria, un uomo ben sotterrato dentro l’armadio che lo protegge e lo imprigiona, ma il dolore di questa prigionia è definito dal filo delicato di una voce poetica che ha la precisione del rasoio e la dolcezza del velluto. Anche quando l’angoscia sembra intollerabile e assoluta, questi tre versi francesi la definiscono con splendida semplicità: «Il n’y a plus personne / Dans les bistrots / a Ittre». E se fosse sempre e proprio così? “Non c’è più nessuno, nei bistrots, a Ittre”. E i poeti continuano a parlare di questo “nessuno”, di questo “io-non-io” che respira la sua voce nell’aria in un luogo reale, amato e misterioso: Genova, Ittre, Volterra. Non importa dove. Il poeta cattura la propria voce e la restituisce in piccole epifanie, in falsi ricordi, autentiche malinconie.
La poesia di Massimo Barbaro esprime il pacato sbigottimento di chi, accordata la lira al silenzio delle cose, registra tuttavia in esse frammenti di significati emergenti. Nel tentativo di accedere all’ascolto puro si odono, dagli interstizi delle cose, tracce a loro modo eloquenti che disdegnano la metafisica della grammatica.
Che si possa poi proferir parola, «che un uomo e una donna si parlino» costituisce la speranza della nostra strana specie e la speranza implicita in questi versi scanditi nel tempo che «si accartoccia», infusi d’una sensibilità raffinatamente riluttante.
Ordinarie rivelazioni ci raggiungono per il momento (for the time being). Come nelle riprese deliberatamente a vuoto di Antonioni, quando lasciava che l’obiettivo indugiasse a registrare passivamente, discretamente, in modo tenero e a un tempo implacabile, il non-evento, il quotidiano che ci illudiamo di conoscere.
Nell’ascoltare le cose, per reticenza, umiltà e integrità poetica, se ne accetta la polvere e la sconfitta, si acquisisce un rigore fenomenologico.
La preoccupazione primaria di questi versi è il tempo. Cos’è il tempo? Per i più qualcosa che «non passa mai» o che «è volato via». I poeti sono «sensibili al mutare delle stagioni», scrutano «nebbie colori dell’erba distanze offuscate». Assuefatti al fiume, non prestiamo attenzione all’acqua che scorre.
Alla provvisorietà, alla mano grigia del tempo rispondiamo di solito con il rancore, creando spettacoli e sistemi. La poesia, dolorosamente attenta all’attimo, si rifiuta, resta immobile nonostante la frenesia apparente. Nasconde «allo stolto / il vuoto dietro l’angolo / l’inutilità del vivere». Lo fa per compassione, reticenza, negative capability. Ed anche – essendo io, lettore, lo stolto – per muta complicità.
Un invito a occupare un territorio di nessuno, ad ascoltare insieme.
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Al di là dei singoli testi questa raccolta ha un suo proprio “suono”, un sentire poetico coerente, quanto di meglio si possa chiedere a un poeta…
Sto leggendo in questi giorni L’arte della scrittura di Lu Ji, e mi pare che in alcuni punti ci sia lo stesso approccio “filosofico”. O forse alla fine ciascun poeta arriva per strade diverse agli stessi principi. Penso alla lettera di Lord Chandos di Hoffmansthal, o a Pessoa…
(Gabriele Quartero)
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Massimo Barbaro, Nei giardini degli scettici, Edizioni del Foglio Clandestino, 2010.
Collana di poesia: Quercus suber
10 Euro – ISBN: 978-88-902114-5-4
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